FRANCO DUGO. L’ANTICO NEL NUOVO

Da Dürer Rembrandt Leonardo Vermeer
Arte che viene dall’arte

Venticinque opere dell’artista goriziano a testimoniare la perenne suggestione che l’arte dei grandi maestri del passato ha esercitato ed esercita nella contemporaneità

Franco Dugo, con i suoi straordinari ritratti, provocherà il nostro coinvolgimento, la nostra reazione. Il nostro sguardo non potrà essere quello di uno spettatore disattento e veloce. Formale e abitudinario.
Dovremo lasciarci catturare da quei volti, dove ogni segno e ogni ruga riportano a vita vissuta. E che vite. Durer, Rembrandt, Leonardo, Vermeer e tutti gli altri che saranno esposti al pubblico, forse sorpresi di trovarsi in un luogo mai visto e altrettanto ricco di storia e storie. L’Abbazia di Sesto al Reghena. Quando usciremo da quelle sale non potremo essere uguali a prima. Sarà questo il contributo, impagabile, che la forte personalità di Dugo ci mette a disposizione partecipando, con le sue opere, al progetto “L’antico nel nuovo”, a cui è dedicata la ventitreesima edizione del Festival Internazionale di Musica Sacra. Assieme a lui musicisti, esperti e studiosi per condurci, ciascuno con i propri linguaggi, in tempi e luoghi dove tante culture diverse si incontrano e si trasformano alla ricerca, è il nostro caso, di un senso alto, sacro, dell’esistenza. Maria Francesca Vassallo

INTRODUZIONE ALLA MOSTRA
di Giancarlo Pauletto
Fin dagli inizi – attorno al settanta, quando Franco Dugo decise infine che sarebbe stato artista e solo artista – la realtà è stata il tema, il perno attorno al quale ha girato, da allora, tutta la sua arte, che si è espressa e ancora si esprime attraverso l’olio, il pastello, il disegno, molto ampiamente con l’incisione, e che si è provata anche in talune notevoli prove di scultura.
Quello che si vede, e quello che si pensa attorno a quello che si vede, è sempre stato il luogo dell’analisi, il problema: la vita umana, da una parte, e la vita della realtà, dall’altra, come grandi interrogativi dai quali l’attenzione non si è mai scostata per ragioni evidentemente legate alla cultura e al temperamento dell’artista, a ciò che dentro di noi ci fa quello che siamo e che è d’altro canto l’unico vero sostegno sul quale la pianta che siamo può crescere ed eventualmente fruttificare.

La sequenza di esempi che potremmo fare a sostegno di queste affermazioni è molto lunga, perché molto lunga è ormai anche l’attività di Dugo: almeno alcuni passaggi, tuttavia, andranno delineati, perché ci permetteranno di capire meglio che genere di realtà Dugo tematizzi, in che modo si pongano i suoi interrogativi e anche le sue soluzioni estetiche.
Ciò permetterà di capire anche la ragione della sua lunga, costante riflessione su taluni grandi maestri del passato, la quale è appunto l’oggetto particolare di questa rassegna, perfettamente coerente con il tema che è al centro anche delle iniziative musicali, cui questa mostra si pone come accompagnamento e, in qualche modo, integrazione dal punto di vista di un ulteriore linguaggio.
Se, alla metà degli anni settanta, i temi sono quelli delle “aristocratiche”, cioè di ricche signore anziane che vivono proprio nel loro corpo la stessa dissoluzione della carne, e poi il tema della follia in cui, attraverso soluzioni figurative nitidissime e fredde, si esprime la solitudine e l’abbandono, non è solo, ci pare, per polemica sociale: è anche perché l’attenzione dell’artista è sullo specifico della condizione umana, al di là delle situazioni estreme che qui vengono rappresentate.
Infatti qualche anno dopo, nell’ottanta, passando prima attraverso il tema del corvo, si giunge alle “identificazioni”, la grande serie che Dugo prende sì dalla fotografia criminale a cavallo tra otto e novecento, per farne tuttavia una secca, metafisica domanda sull’identità umana in generale, sul “cos’è” della vita stessa.
A questo punto appare chiaro all’artista che l’immagine, ogni immagine, non ha più bisogno di supporti simbolici, letterari, per dire quello che deve dire.
Basta il ritratto, per esempio lo splendido ritratto del padre del1989, basta la figura di Cézanne seduto davanti al proprio cavalletto, del 1997, basta tutta la splendida serie dei pugili tra fine anni ottanta e inizi anni novanta, bastano i notissimi ritratti di poeti, letterati e musicisti, tra i quali si annoverano molte delle riuscite più alte di Dugo.
Questo guardare la figura esattamente nei suoi contorni, mettendola davanti a noi in tutta la sua precisa nitidezza, usando allo scopo un colore severo, del tutto alieno da compiacimenti, significa alla fine mettere lo spettatore di fronte a se stesso: così Kafka e Pasolini ci guardano, dal fondo degli occhi, per caricarci di tutte le loro domande, e noi sappiamo che i loro problemi d’esistenza sono in fondo anche i nostri.
E’ appunto quando è matura la consapevolezza che l’immagine basta a se stessa, che Dugo può passare anche alla rappresentazione della natura, a partire dal “Grande albero” del 1989.
Se infatti il vero problema che pone la vita è quello della sua nuda esistenza nel tempo, allora la vita della natura – che è poi l’ambito dell’umano, né esso potrebbe essere altrove – pone lo stesso mistero della vita dell’uomo, e collina, cielo, bosco albero mare e nuvole suscitano gli stessi interrogativi “metafisici” che pone la vita umana.
Si sviluppa da qui tutta la lunghissima serie di paesaggi, incisi e dipinti a olio e pastello, che l’artista va realizzando dagli anni novanta, sulla quale non ci possiamo soffermare in questa circostanza, ma di cui possiamo dire in sintesi che continua a sottolineare il dato già espresso dell’interrogazione e del mistero.
In questo contesto, come si inseriscono i vari e ampi episodi pittorici e grafici, in cui Dugo prende spunto più o meno direttamente dai grandi del passato, Leonardo e Rembrandt, Dürer e Vermeer?
La prima risposta è ovvia, e pertiene al fatto che egli non è mai stato attirato dall’arte astratta: non perché non ne comprenda le ragioni, ma perché non è essa che può incidere sulla sua sensibilità, e le ragioni mi sembrano abbastanza chiaramente espresse in quanto è detto sopra.
Dunque è la grande tradizione del figurativo, in particolare come si è manifestata nel rinascimento e nel barocco, che è al centro della sua attenzione, in vari episodi tra i quali si tematizzano i quattro sopra citati.
Questa attenzione peraltro si sposta anche verso i grandi contemporanei o quasi, come dimostrano ad esempio i lavori che Dugo ha dedicato alle figure di Cézanne e Picasso.
L’altra ragione sarà da ricercare io penso nell’ammirazione: si tratta di maestri così alti che anche l’artista contemporaneo che opera in campo figurativo non può far a meno di conoscere a fondo.
E questo è l’altro importante motivo: parafrasare le loro opere per cogliere qualche segreto, per imparare qualcosa, naturalmente operando non in pura imitazione, ma esaltando un’essenza che viene colta nelle opere antiche.
Così, solo per fare qualche esempio, dal “Cavaliere la morte e il diavolo” del Dürer è tolta tutta l’ambientazione, ed è lasciata a campeggiare sul grande formato solo la potenza dell’incedere del cavaliere.
Così, di Rembrandt sono ripresi soprattutto i ritratti della vecchiaia, nei quali il pittore si considera con occhio sempre più problematico.
Attorno alla Gioconda di Leonardo si ricostruisce la storia del celebre furto, operato al fine di poter vendere alcuni falsi della famosa figura, sorta di ironica meditazione sugli inganni di cui l’arte può essere nello stesso tempo vittima, ma anche fautrice, attraverso il mito di quasi sovrumanità che non sempre innocentemente le viene creato attorno.
Mentre invece nelle riprese da Vermeer sembra che Dugo voglia sottolineare, rispetto al modello, una sorta di maggior peso realistico, del resto coerentemente con lasua sensibilità.
Insomma, l’arte trattata come un pezzo di realtà, l’antico che si riversa in una nuova intenzione. Giancarlo Pauletto

QUARTETTO D’ARCHI DELLA RADIOTELEVISIONE ALBANESE

Blerta Ristani Jakova, violino
Alma Seferaj, violino
Albana Kola Axha, viola
Aristidh Prosi, violoncello
musiche di L. van Beethoven, D. Shostakovich

Il Quartetto op. 132 di Beethoven, con il suo terzo movimento “Canto di ringraziamento alla divinità” è un sublime esempio di “religiosità profana”, momento ascetico in cui la Musica non può che avvicinare l’Uomo a Dio. E invece l’Ottavo Quartetto di Shostakovich, dedicato “alle vittime del fascismo e della Guerra”, è un commosso e tormentato gesto di ripudio universale della violenza e di ogni genere di conflitto tra i popoli.
Il Quartetto d’archi della RTV di Tirana, al di là dell’eccellenza artistica dei suoi componenti, è anche simbolo di una Nazione che sta rinascendo dopo essere passata attraverso gli orrori di una dittatura difficile da dimenticare.

Il Quartetto si articola in cinque movimenti, ma non è solo per questa inconsueta articolazione che questa partitura si allontana da principi costruttivi tradizionali.
Nel primo movimento sono molti gli elementi che si giustappongono senza apparente relazione. In particolare è straordinaria la mutevolezza dei tempi: il compositore alterna sovente Allegro e Adagio, ma spesso scrive note lunghe per rallentare le sezioni veloci creando così delle zone cariche di tensione il cui esito è imprevedibile. Anche sul piano delle dinamiche Beethoven preferisce le separazioni nette (dal fortissimo al pianissimo) piuttosto che le sfumature, accentuando così una sorta di «frammentazione rapsodica».
Nel secondo movimento (uno Scherzo in la maggiore) sembra di ritornare ad una scrittura più distesa, cui contribuisce in modo determinante la sezione centrale (Trio), di carattere pastorale.
Nel terzo movimento il modo lidico citato nel sottotitolo sta ad indicare la tonalità di fa maggiore ma senza il si bemolle. Lo scopo era quello di lavorare con una tonalità fluttuante tra do maggiore e fa maggiore per creare una vasta zona di indeterminatezza che conferisse un’atmosfera di sospensione, di non-risoluzione. Nel 1823 Beethoven aveva terminato la Missa Solemnis e aveva approfondito lo studio dei modi liturgici attraverso la musica del Cinquecento. Se questo può spiegare in parte la scelta armonico-tonale, sembra che il compositore abbia voluto dar voce, con l’assenza di riferimenti certi, al repentino mutare dei sentimenti. Si intrecciano e si alternano infatti due parti: Molto adagio (Canzona di ringraziamento…) e Andante (Sentendo nuova forza), che sono come accenti di stupore, di commozione, veri e propri moti dell’anima alla quale Beethoven si richiama quando, nell’ultima parte del movimento, scrive, «con intimissimo sentimento».
Segue una breve Marcia che ha lo scopo di riportare il Quartetto su binari più consueti e di preparare, attraverso un recitativo (sviluppato dal violino primo), l’ingresso dell’Allegro appassionato conclusivo. Questo rientra nei più tradizionali canoni del Rondò, con un ritornello che rassomiglia ad un appassionato valzer al quale si alternano motivi di canzone.

Il Quartetto n. 8 in do minore di Dmitri Shostakovich è stato scritto in tre giorni, tra il 12 e il 14 luglio 1960) ed eseguito per la prima volta nello stesso anno a Leningrado dal Quartetto Beethoven.
L’opera esce da un periodo particolarmente drammatico della vita del compositore: la sua sempre più opprimente riluttanza ad entrare nel Partito Comunista Sovietico fu aggravata dalla comparsa dei primi sintomi di una debilitante debolezza muscolare che sarebbe poi stata diagnosticata come sclerosi laterale miotrofica.
La dedica in partitura “alle vittime del fascismo e della guerra” fu interpretata dal figlio Maxim come un riferimento alle vittime di tutti i totalitarismi, mentre la figlia Galina sostiene che fosse dedicato a se stesso e che la dedica fosse stata imposta dalle autorità russe. L’amico fraterno Lev Lebedinsky afferma invece che Shostakovich avesse pensato al lavoro come al suo epitaffio in quanto in questo terribile periodo aveva pensato al suicidio.
Il lavoro fu completato a Dresda, dove Shostakovich si trovava per comporre la musica per il film “Cinque giorni, cinque notti”, un progetto congiunto sovietico – tedesco orientale sul bombardamento di Dresda alla fine della seconda guerra mondiale.
Il quartetto, estremamente compatto e concentrato, è in cinque movimenti collegati senza interruzioni.
Il primo movimento si apre con il motivo DSCH (le note re-mi bemolle-do-si nella denominazione anglosassone), che era la firma musicale di Shostakovich. Questo tema lento, estremamente triste si ritrova anche nel suo Concerto per violoncello n. 1, nella Sinfonia n. 10, nel Concerto n. 1 per violino e in altre opera. Il motivo è utilizzato in ogni movimento di questo quartetto ed è alla base del tema più veloce del terzo movimento.
Il lavoro è pieno di citazioni di altri brani del compositore: il primo movimento cita la Prima e la Quinta Sinfonie, il secondo movimento utilizza un tema ebraico del Trio n. 2 con pianoforte, il terzo movimento cita il Concerto per violoncello n. 1, il quarto movimento cita una canzone rivoluzionaria dell’Ottocento e l’aria Seryozha dall’opera di Shostakovich “Lady Macbeth del distretto di Mtsensk”, il quinto contiene ancora un gioco ancora su un motivo di “Lady Macbeth”.
Nel 1962 il celeberrimo Quartetto Borodin, prima di registrare questo lavoro, volle eseguirlo per il compositore nella sua casa di Mosca, per averne delle osservazioni e indicazioni interpretative. Ma Shostakovich, sopraffatto da tanta stupenda realizzazione dei propri sentimenti più intimi, seppellì la testa tra le mani e pianse. I quattro musicisti, conclusa l’esecuzione, chiusero gli strumenti e se ne andarono in silenzio.
Indubbiamente quest’opera ha una valenza fortemente autobiografica, una meditazione appassionata e desolata nel contempo sulle tragedie umane, tra le quali la guerra è forse la più inspiegabile e inaccettabile.
Non è musica descrittiva quella del Quartetto n. 8, anche se in alcuni momenti – il la diesis che risuona in pianissimo nel terzo movimento, ad esempio – sembra evocare immagini di bombardieri che si allontanano. E’ forse la preghiera di un ateo per l’intera umanità.

Il Quartetto d’archi della Radiotelevisione Albanese ha iniziato la propria attività nel giugno 2008 ed è proseguita con continuità in Patria e in numerosi concerti all’estero.
I suoi componenti sono membri stabili e prime parti dell’Orchestra Sinfonica della Radiotelevisione Albanese e svolgono una intensa attività in diverse formazioni, anche come solisti.
Blerta Ristani Jakova, diplomata con il Massimo dei voti all’Accademia delle Arti di Tirana sotto la guida di Ibrahim Madhi, è primo violino dell’Orchestra della Radiotelevisione Albanese. Ha fatto parte di varie formazioni cameristiche partecipando ad importanti festival in Italia e Albania.
Alma Seferaj, ha completato gli studi alla Hochschule di Mainz, Germania, con i professori Christof Schickedanz e Ervis Gega, perfezionandosi in seguito con Uff Schmidt e Andreas Reiner.
Ha collaborato con l’Orchestra Sinfonica di Bonn e in seguito ha vinto il concorso per un posto nell’Orchestra Sinfonica di Göttingen, dove è anche divenuta membro del Quartetto stabile dell’Orchestra.
Dal 2010 è ritornata in Albania come componente dell’Orchestra Sinfonica della RTV. Dal 2012 fa parte del Quartetto d’Archi della RTV.
Albana Kola, diplomata con il massimo dei voti all’Accademia delle Arti di Tirana con il prof. Arian Paco, dal 2001 fa parte dell’Orchestra della RTV Albanese.
Si è perfezionata in seguito con i professori Bruno Pasquier, Nicolas Bonne e Ammi Flammer al Conservatorio di Parigi.
Come membro dell’Orchestra Giovanile Mediterranea ha partecipato a diverse tournèes in Siria, Israele, Malta, Turchia, Palestina, Italia, Francia, anche in formazioni cameristiche.
Si è esibita più volte come solista con l’Orchestra della RTV Albanese.
Aristidh Prosi, da molti anni primo violoncello solista dell’Orchestra della RTV Albanese, si dedica da lunghissimo tempo alla musica da camera, in particolare al quartetto d’archi, formazione che aveva fondato sin dal 1986 nell’ambito della RTV Albanese, con il nome di Quartetto di Tirana. Con questo gruppo ha svolto una intensa attività tra il 1991 e il 2000, incidendo diversi CD e vincendo il premio speciale della Giuria al prestigioso Concorso Internazionale per Quartetto d’Archi di Evian, Francia, nel 1991.
Si esibisce frequentemente come solista con orchestra con un vastissimo repertorio: tra le più importanti performances si ricordano il Concerto di Elgar (direttore Eno Koco), il Doppio Concerto di Brahms (direttore Le Fi Fi) e il Concerto n. 1 di Shostakovich (direttore Lev Nokolajev. Attività che gli è valsa nel 2006 la nomina di “Strumentista dell’Anno” del più importante evento culturale albanese, il Premio KULT.

OFFICUM CONSORT

WALTER TESTOLIN E ALESSANDRO DRIGO
Direttori

barbara codutti, eugenia corrieri, mara corazza, paola crema, elisabetta gasparotto, roberta marano, eleonora serena, yoko sugai
Soprani

elisa bagolin, elisabetta bonotto, giuseppe cabrio, lisa friziero, michaela magoga, fabiana polli, maria zalloni, lucia zigoni
Alti

massimo altieri, marco barbon, matteo benetton, marco della putta, oscar durat, peter gus, fulvio trapani, claudio zinutti
Tenori

enrico basello, marco casonato, franco cisilino, francesco del bianco, stefano giusti, pio francesco pradolin, nicola rampazzo, carlo roni, alberto santarossa
Bassi 
La scrittura per doppio coro a 4 secoli di distanza
Orlando di Lasso “Missa Super Osculetur me”
Frank Martin “Messa a doppio coro”

Antico e moderno si abbracciano idealmente in questo nuovo progetto dell’Officium Consort, dove si mettono a confronto due stili di scrittura per doppio coro distanti tra loro la bellezza di quattro secoli: il forte contrasto che si crea dalla contrapposizione di una forma estremamente lineare e distesa (Orlando di Lasso) con una scrittura dove le armonie moderne sono abbinate a continui cambi di tempo (Frank Martin). L’Officium Consort si avvarrà della collaborazione di uno dei più importanti e riconosciuti interpreti della musica antica, a livello nazionale ed internazionale: il maestro Walter Testolin.

LA SCRITTURA PER DOPPIO CORO A 4 SECOLI DI DISTANZA
Antico e moderno si abbracciano idealmente in questo nuovo progetto dell’Officium Consort, dove si mettono a confronto due stili di scrittura per doppio coro distanti tra loro la bellezza di quattro secoli, offrendo così all’ascoltatore il forte contrasto che si crea dalla contrapposizione di una forma estremamente lineare e distesa (Orlando di Lasso) con una scrittura dove le armonie moderne sono abbinate a continui cambi di tempo (Frank Martin), con un lontano richiamo alla melodia gregoriana, presente soprattutto nell’Agnus Dei (anche se è un gregoriano aggiornato al nuovo secolo).
Ricorrono nel 2014 i quarant’anni dalla morte di Martin e quattrocentoventi da quella di Orlando di Lasso: proprio nell’affrontare la scrittura di quest’ultimo, l’Officium Consort si avvarrà della collaborazione di uno dei più importanti e riconosciuti interpreti della musica antica, a livello nazionale ed internazionale: il Maestro Walter Testolin.
Anche se Orlando di Lasso (1532-1594) è forse il più celebre compositore del tardo rinascimento, le poche registrazioni della sua musica non danno un’impressione adeguata della sua grandezza.
La sua produzione è talmente vasta e diversificata che risulta fin difficile sapere da dove cominciare: sicuramente, per gli appassionati di musica sacra, il punto “zero” è rappresentato dall’ampia raccolta delle Messe (ne risultano composte più di 70, da quattro a otto voci), anche se queste sono state a lungo considerate opere inferiori.
C’è del vero in questa affermazione, soprattutto per quanto riguarda le prime Messe scritte a quattro voci, ma le composizione successive a sei e otto voci sono da considerarsi fra le più interessanti di quel periodo specifico.
Vi è una notevole ricchezza di materiale ancora da esplorare in questa tipologia di scrittura del compositore fiammingo e le tre Messe a doppio coro possono oggi essere considerate come le composizioni più affascinanti ed impegnative al tempo stesso.
Queste tre Messe sono: Bell’Amfitrit altera, Vinum bonum e la Osculetur me, oggetto della nuova produzione musicale dell’Officium Consort.
La formazione musicale di Orlando di Lasso, propriamente Roland de Lassus, è piuttosto oscura. Non si conoscono, infatti, i nomi dei suoi maestri, ma è certo che conobbe e fu influenzato dai grandi musicisti del suo tempo.
Fu fanciullo cantore presso il viceré di Sicilia F. Gonzaga; poi, dopo il 1549, fu a Napoli e quindi maestro di cappella in San Giovanni in Laterano a Roma. Dopo un viaggio in patria, in Inghilterra e in Francia, nel 1557 si stabilì a Monaco, dapprima come tenore della cappella del duca Alberto V di Baviera, poi dal 1562-63 come maestro di cappella. Seguì il duca nei suoi viaggi attraverso l’Europa, venendo a contatto con esperienze musicali diverse e godendo del favore delle grandi corti.
Si presume che Lassus abbia imparato la tecnica di scrittura per doppio coro in Italia, dal momento che non avrebbe mai incontrato questo metodo compositivo e di disposizione del testo nella sua terra d’origine.
Infatti, nonostante la complessità e la varietà degli atteggiamenti stilistici ed espressivi propri della scuola fiamminga, è possibile isolare alcuni tratti tipici e peculiari: su tutti, la creazione di uno stile basato sull’ideale equivalenza di tutte le parti del tessuto contrappuntistico e sull’uso
dell’imitazione rigorosa come mezzo per conferire organicità alla struttura compositiva.
Lo sfruttamento delle più complesse tecniche contrappuntistiche si inserisce in una concezione estetica lucidamente intellettuale e speculativa.
Questo stile di scrittura, che porta all’espressione più sottile ed intima, è all’estremo opposto dalla maggior parte della musica antifonale, che mira ad impressionare l’ascoltatore per la sua grande purezza.
In termini musicali, la differenza tra i due stili si può riassumere come differenza tra musica concepita in senso orizzontale, che è l’essenza del contrappunto, e musica concepita verticalmente, come la maggior parte della musica barocca italiana.
È abbastanza difficile fare generalizzazioni sulla musica di Orlando di Lasso: tuttavia, possiamo dire che il mottetto che apre il programma Osculetur me e tutta la Messa omonima rientrano nella seconda categoria. Il rischio della scrittura per doppio coro è che il suo effetto imponente possa perdere tutto il suo fascino ed il suo potere subito dopo il primo ascolto: spesso questo si è verificato con i primi esperimenti di scrittura per doppio coro della scuola veneziana e Orlando di Lasso, nella ricerca della soluzione volta ad ovviare il problema, occupa sicuramente un posto importante nello sviluppo delle prime forme di barocco italiano.
Mottetto e Missa Osculetur me rappresentano un ottimo esempio di come Lassus rivolse questo nuovo metodo di composizione al fine di dare una nuova luce alla scrittura per doppio coro, che funse anche da modello per il compositore veneziano Andrea Gabrieli, che incontrò a Monaco nel 1560.
Nel mottetto Osculetur me i principali punti di forza dell’intera Messa sono già evidenti: frasi abbastanza lunghe per ogni coro, in modo da
rendere possibile un breve contrappunto, una forte differenza di sonorità tra i passaggi da un coro all’altro e quando i due cori cantano assieme (non sempre il caso nella musica veneziana del periodo), una successione di frasi che rimandano a stati d’animo e contorni contrastanti ben identificabili (ad esempio, la scrittura quasi sensuale della frase “oleum effusum nomen tuum” e della vicina antifona “Trahe me post te”) .
Il vantaggio è che mentre nel mottetto questi contrasti sono suggeriti dalle parole stesse, quando Lassus è arrivato al punto di impostare la scrittura della Messa aveva un potente insieme di motivi da distribuire nel testo.
L’antifona già descritta precedentemente “Trahe me post te” è utilizzata in modo superbo in quasi tutti i movimenti della Messa e come non mai nel secondo Kyrie, dove Lassus inaspettatamente scrive la voce del soprano in sincope.
In altri punti, ha dimostrato che poteva, proprio come Palestrina, riscrivere o estendere il suo modello musicale al più sofisticato modo di trattare la parodia. Il quartetto con cui inizia il “Crucifixus” nel Credo è l’esempio più lampante, ma alcune battute del “Sanctus” e del primo “Agnus Dei” rivelano la stessa tecnica, mente il “Benedictus” sembra essere una nuova composizione, del tutto estranea a questo stile.
Nato a Ginevra nel 1890 Frank Martin, compositore svizzero, ultimo di dieci figli della famiglia di un ecclesiastico, cominciò a suonare e improvvisare al pianoforte ancora prima di andare a scuola.
All’età di nove anni compose delle affascinanti canzoni per bambini che, nonostante non avesse ancora studiato le forme musicali e l’armonia, risultano perfettamente equilibrate.
Un’esecuzione della Passione secondo Matteo di J. S. Bach, ascoltata all’età di dodici anni, lasciò una impressione permanente nel compositore, per il quale J. S. Bach rimase il vero maestro.
Frequentò la Scuola Latina e, per accontentare i genitori, frequentò per due anni gli studi di Matematica e Fisica all’Università di Ginevra.
Nello stesso periodo cominciò a studiare pianoforte e composizione con Joseph Lauber, che lo iniziò al “mestiere”, specialmente nella strumentazione.
Tra il 1918 e il 1926 Martin visse a Zurigo, Roma e Parigi, alla ricerca del suo proprio linguaggio musicale.
La Messa per due cori a quattro voci fu completata nel 1926, quando il compositore svizzero aveva trentasei anni e portava a termine un ampio percorso formativo tra Svizzera, Italia e Francia, tornando nella natale Ginevra per assumervi incarichi d’insegnamento.
Avrebbe poi scelto l’Olanda e la Germania postbellica come luoghi di residenza e di lavoro, rientrando in Svizzera solo alla fine degli anni Cinquanta.
Nell’accostarsi alla forma canonica della musica liturgica, il giovane Martin adottò integralmente e senza alcuna modifica il testo latino dell’Ordinarium Missae, le cui sei parti egli compose secondo la tecnica del doppio coro o dei cori battenti. Tale composizione, il cui periodo di gestazione oscilla tra il 1922 (Kyrie) e il 1926 (Agnus Dei), si rifà a modelli compositivi che richiamano epoche precedenti, dall’antica monodia al contrappunto di ispirazione bachiana.
Del periodo romantico Martin riprende l’utilizzo dei temi musicali e la loro ripetizione in forma simile ma mai uguale, e contrappone alle dissonanze novecentesche diverse sezioni all’unisono, sia a voci pari che, come nel caso dell’Agnus Dei, affidandolo interamente ad uno dei due cori.
È inoltre interessante notare come l’adozione del tradizionale testo liturgico porti con sé
anche soluzioni tipiche date dalla storia della musica ai momenti fondamentali della messa: nel “et resurrexit” del Credo il giubilo viene inizialmente affidato alle voci femminili, prime portatrici del messaggio di resurrezione del Cristo, per poi estendersi a tutto il coro, così come l’“Hosanna” di Sanctus e Benedictus.
Pur componendo le sei parti della messa in modo che esse risultino autonome e, apparentemente, non collegate tra loro, Martin segue una precisa successione logica nella scelta delle tonalità di impianto di ogni sezione, rendendole indipendenti ma allo stesso modo concatenate in un’unica grande opera, a tutt’oggi considerata tra i maggiori capolavori della musica corale del XX secolo.
WALTER TESTOLIN Cantante e direttore di coro, la sua attività professionale si è svolta sin dall’inizio nell’ambito della musica rinascimentale e barocca, con diverse esperienze anche nel repertorio contemporaneo.
Basso profondo di particolare estensione e duttilità, svolge intensa attività nei generi dell’Oratorio, della Cantata e dell’Opera barocca e nel repertorio rinascimentale sia sacro che madrigalistico per ensemble, cantando per prestigiose istituzioni concertistiche e teatrali sotto la guida di direttori quali Sigiswald Kuijken, Alan Curtis, Andrew Lawrence-King, Peter Maag, Fabio Bonizzoni, Diego Fasolis, Barthold Kuijken, Michael Radulescu, Ottavio Dantone.
Nella sua produzione discografica, composta d’oltre cento titoli, spiccano l’integrale dei Madrigali di Claudio Monteverdi e di Carlo Gesualdo oltre alla partecipazione all’integrale delle musiche di Heinrich Schütz.
Ha inoltre effettuato registrazioni per molte delle più importanti emittenti radio- televisive
europee. Collabora con La Petite Bande di Sigiswald Kuijken, prendendo parte alle tournée e alle registrazioni discografiche del Vespro della Beata Vergine di Claudio Monteverdi, della Johannes-Passion di Johann Sebastian Bach e della Weihnachtshistorie di Heinrich Schütz.
Ha collaborato in veste di direttore di coro alla prima mondiale del Mosé di Michael Nyman (Roma 2001) ed è stato invitato nell’ottobre 2008 a dirigere la Messa per 6 voci e 3 bayan che il “Laboratorio per la Musica Contemporanea al Servizio della Liturgia” di Milano ha commissionato a cinque rappresentativi compositori europei.
Studioso appassionato dell’opera di Josquin Desprez, della quale è considerato uno dei più attenti e significativi conoscitori ed esecutori in assoluto, il suo nome è indissolubilmente legato a De labyrintho, ensemble vocale da lui fondato che sotto la sua direzione si è segnalato come uno dei gruppi vocali di riferimento nel repertorio rinascimentale e la cui attività discografica ha ricevuto riconoscimenti come il Gramophone Critic’s Choice 2004, la segnalazione ai Klara Muziekprijzen 2007 come ensemble emergente e il Premio Amadeus 2008 per il Miglior disco dell’Anno.
Cifra particolare delle sue esecuzioni è la costante attenzione dedicata alla restituzione dei significati profondi del testo cantato, inteso come vero motore dell’interpretazione musicale, e la cura rivolta al rapporto tra le musiche eseguite e gli ambienti culturali, filosofici e artistici che le hanno prodotte.
Tiene corsi, conferenze e Masterclass presso prestigiose istituzioni italiane ed estere e collabora, in qualità di consulente del direttore editoriale, alla “New Josquin Edition”, nuova edizione critica delle musiche di Josquin Desprez, edita dal Reale Istituto Olandese di Studi Musicali.
È autore di uno studio, reso pubblico durante il Symposium Josquin & the Sublime svoltosi presso la Roosevelt Academy dell’Università di Utrecht (NL) e la cui versione definitiva è stata pubblicata nella Rivista Italiana di Musicologia, che riconosce in Josquin Desprez il soggetto del “Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci conservato nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano.
Ha partecipato al film Sul nome B.A.C.H. di Francesco Leprino, eseguendo con De labyrintho il Contrappunto X dell’Arte della Fuga.
È direttore dei corsi estivi Rovigo Musica Antica organizzati dall’associazione Il Canto delle Muse in concorso con il Conservatorio “Venezze” di Rovigo e dal 2011 dirige l’ensemble giovanile vocale e strumentale RossoPorpora.
ALESSANDRO DRIGO Nato a Pordenone nel 1977, Alessandro Drigo ha compiuto gli studi di pianoforte presso la Scuola di Musica “Pietro Edo” di Pordenone sotto la guida di M. Baldin diplomandosi brillantemente al Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia. Seguitamente ha avuto modo di perfezionarsi con i maestri R. Repini, P. Bordoni, D. Rivera per il pianoforte, L. Antonaz e A. Tenaglia per il repertorio liederistico. Parallelamente agli studi strumentali ha sempre coltivato la passione per il mondo corale: cantore e strumentista in diverse formazioni corali del pordenonese, dal 2003 è membro dell’Officium Consort di Pordenone con il quale ha conseguito importanti premi e riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale.
Ha frequentato corsi e masterclasses sulla direzione di coro con i maestri A. Martinolli D’Arcy, M. Dal Bianco, L. Donati, L. Marzola, N. Corti.
Già membro della commissione artistica dell’USCI provinciale e della commissione artistica di “Corovivo – confronti corali del FVG”, attualmente ricopre il ruolo di commissario artistico
per la provincia di Pordenone all’interno dell’USCI Friuli Venezia Giulia.
Dal 2012 è direttore dell’Officium Consort, con il quale ha realizzato diverse produzioni sia per coro virile che in formazione a coro misto, riscuotendo consensi di pubblico e critica.
OFFICIUM CONSORT di Pordenone, costituito nel 2001, è il risultato di un progetto formativo iniziato all’interno dell’U.S.C.I. Pordenone, dedicato all’interpretazione del canto corale ad indirizzo polifonico, particolarmente rivolto alla vocalità virile, tenuto dal compianto maestro Piergiorgio Righele.
Superata la fase sperimentale, il gruppo, sotto la guida dei maestri Giorgio Mazzucato, Danilo Zeni e Davide De Lucia, ha intrapreso con successo la strada della ricerca di progetti musicalmente e stilisticamente organici e coerenti, volgendo la propria attenzione in particolare al repertorio gregoriano, alla prepolifonia ed ai mottetti rinascimentali.
L’Officium Consort (già Coro Maschile dell’USCI di Pordenone) ha avuto modo in più occasioni di proporre il proprio originale ed interessante repertorio, suscitando ovunque vivo interesse ed entusiastici apprezzamenti.
Nel 1999 si è aggiudicato il secondo posto (primo non assegnato) nella categoria di canto gregoriano al 38° Concorso Internazionale di Canto Corale “C.A. Seghizzi”.
Nel 2004 ha vinto il secondo premio nella categoria di Canto Monodico Cristiano al 52° Concorso Polifonico Internazionale “Guido d’Arezzo” (miglior coro italiano).
Nel 2005 e nel 2007 l’Officium Consort si è classificato nella fascia di Eccellenza della manifestazione “COROVIVO” – Confronti Corali Itineranti del Friuli Venezia Giulia.
Nel 2008 ha vinto il terzo premio ex-aequo al 43° Concorso Nazionale Corale Trofei “Città di Vittorio Veneto”.
L’etichetta milanese “La Bottega Discantica” ha pubblicato tre produzioni discografiche dell’Officium Consort: “Concordia Discors” – echi gregoriani nella musica d’organo (in collaborazione con Francesco Finotti), “Adoramus te, Domine Jesu Christe” e “Passione di Christo secondo Giovanni”, di Francesco Corteccia.
Sue esecuzioni sono state registrate dalla RAI e da ORF, interviste ai direttori trasmesse da Radio Vaticana e Radio Capodistria.
L’obiettivo del gruppo è lo studio e la diffusione della monodia antica e della polifonia cinquecentesca e seicentesca con particolare riferimento a progetti e programmi diretti al recupero sia di testi che di autori meno frequentati.
La scelta del percorso artistico è sostenuta dalla consapevolezza che l’Officium Consort rappresenta una rarità nel panorama della coralità amatoriale della provincia e della regione per gli obiettivi di ricerca vocale, stilistica, di prassi e di organico.
Da ottobre 2012 l’Officium Consort è diretto da Patrizia Avon (repertorio monodico) e da Alessandro Drigo, che ha esteso il repertorio alla musica del ‘900 ed alle composizioni contemporanee.

CARLO TEODORO violoncello e GERMANO SCURTI bayan

Il nuovo, l’antico
musiche di J. S. Bach, S. Gubajdulina, A. Pärt

L’accostamento insolito di due strumenti fascinosi, porta alla riscoperta o alla reinvenzione di un repertorio importante dedicato alla ricerca spirituale. Teodoro e Scurti, virtuosi del loro strumento e veri specialisti della musica d’oggi, indagano l’antico, il corale luterano rivisto da Bach, e guardano alla contemporaneità di compositori tra i più originali del nostro tempo, entrambi caratterizzati da una forte, a volte straziante, tensione spirituale nella loro musica e nella loro ricerca interiore.

L’idea di “memoria al futuro” ci sembra quanto mai appropriata per descrivere lo sviluppo che negli ultimi decenni ha vissuto la fisarmonica e in particolare modo la sua versione più evoluta: il bayan. Uno strumento musicale acustico di recente invenzione ed elaborazione che desta sorpresa e nello stesso tempo familiarità.
La sua origine, radicata nella tradizione popolare, e i suoi sviluppi negli ultimi decenni nella musica colta contemporanea vanno proprio a definire questo suo carattere duplice: essere uno strumento predisposto all’inedito e al tradizionale allo stesso tempo, una marcatura che probabilmente lo rende inconfondibile. Considerazioni queste che stanno alla base del presente programma, caratterizzato appunto dalla valorizzazione della suddetta connaturata duplicità: la produzione di memoria e lo slancio verso il futuro, il sentimento della familiarità e l’attivazione perturbante dell’inedito.
La stessa combinazione bayan-violoncello che qui proponiamo rivela una altrettanto sorprendente duplicità: due diverse forme di produzione del suono che, tanto all’orecchio, quanto a una analisi fisico-acustica dello spettro armonico, rivelano una affinità tonale quanto mai unica.

Johann Sebastian Bach
Suite n. 1 in sol maggiore BWV 1007 (1720)
Fu composta nel 1720 circa, quando Bach si trovava al servizio della corte calvinista di Köthen. Consta di una successione di un preludio e cinque danze, che alternano tempi veloci a tempi lenti.
Il Preludio è costituito da serie di arpeggi spezzati con grande forza trainante, la cui ripetizione, spesso simmetrica, è talvolta interrotta da quartine di passaggio che lentamente delineano le trasformazioni armoniche; si conclude in maniera toccante dopo una scala cromatica ascendente spezzata e un lungo pedale all’acuto.
Nell’Allemanda una formula ritmico-melodica, subito dichiarata in apertura, plasma la logica del periodo, in una serie di enunciati musicali precisi e cantabili
La Courante è in stile italiano, dal ritmo brillante e incalzante. Le particelle tematiche ricompaiono a tratti regolari sulle diverse corde dello strumento, mentre il colore diverso e il mutamento dei registri, arricchiscono la tavolozza timbrica.
La Sarabanda condensa, nella sua struttura speculare di due volte otto battute, una carica di esitante introversione melodica. Ogni battuta ha un ritmo proprio, in una tensione anelante alla cantabilità più diffusa. La tersa, raffinata eleganza dei due Minuetti (uno nel tono d’impianto, l’altro in minore) e la semplicità lirica della Giga finale, concludono l’opera in un’atmosfera di rara elevatezza spirituale.

Sofija Asgatovna Gubajdulina
In Croce (1979/2009)
La compositrice russa affermò: «il simbolo di per se stesso è un fenomeno vivo […].
Cosa vuol dire simbolo? Secondo me la massima concentrazione di significati, la
rappresentazione di tante idee che esistono anche fuori della nostra coscienza e il momento in cui questa apparizione si produce nel mondo: questo è il momento di fuoco della sua esistenza, perché le molteplici radici che si trovano al di là della coscienza umana si manifestano anche attraverso un solo gesto.»
Il simbolo utilizzato in questo brano è quello della croce, trasposta in musica a livello grafico, strutturale, esecutivo e cristologico. Una croce è formata dal suonatore di bayan che dispiega il suo strumento, un’altra croce dal violoncellista che tende l’arco sulle corde. I due strumenti iniziano a suonare proponendo forti differenze di registro, di fraseggio, di timbrica, scambiandosi poi man mano reciprocamente – sempre nel rispetto della simbologia della croce – i rispettivi parametri: registro alto/registro basso, legato/staccato, diatonismo/microcromatismo.
La musica comincia in maniera relativamente diatonica, col bayan che emette pulsazioni acute e il violoncello che intona le sue note più gravi, entrambi focalizzandosi sulla nota mi. Lentamente i due strumenti si avvicinano e, man mano che procedono verso la “collisione”, aumentano i volumi e le intensità, sprigionando quasi aggressività.
Dopo un passaggio dai tratti piuttosto selvaggi di entrambi gli strumenti, ci si inoltra lentamente verso il silenzio; gli accordi dissonanti del bayan accompagnano le note spoglie del violoncello, mentre entrambi convergono nuovamente sul mi, in un finale sobrio e cupo.

Sofija Asgatovna Gubajdulina
De Profundis (1978)
Il De Profundis è la prima opera per bayan della compositrice russa e la prima volta in cui questo strumento viene inserito in un ambito simbolico-religioso.
Fu scritto in collaborazione con il fisarmonicista Friedrich Lips, che lo eseguì a Mosca nel 1980.
La gamma delle espressioni più peculiari del bayan aderisce perfettamente alle vere e proprie intonazioni organiche del lamento, del sospiro e del respiro; cluster si alternano a sonorità quasi elettroniche, vibrazioni celestiali a cupi boati.
Non si tratta di una trasposizione sillabica o immaginabile per la voce del salmo, ma di una reazione istintiva della compositrice, invocazione e supplica, sofferenza e speranza.
Lo strumento musicale diventa un corpo vivo che affronta un viaggio nel mondo del dolore, un attraversamento caratterizzato da una specifica origine e una altrettanto specifica destinazione: dalle scure profondità della sofferenza alla luminosità dell’ascensione.

Elena Firsova
Crucifixion op. 63 (1993)
Crucifixion fu composto nella primavera del 1993 per due interpreti straordinari, Karine Georgian ed Elsbeth Moser.
Ritorna il simbolo della croce, che si spoglia della sua valenza esclusivamente cristiana, per significare l’universalità della sofferenza umana, quasi a livello archetipico.
I contorni della forma sonata sono riconoscibili in questo brano, concepito come un concerto di un solo movimento.

Arvo Pärt
Fratres
Il celeberrimo compositore estone è conosciuto e amato per la sua scrittura personalissima che recupera antichi procedimenti compositivi e utilizza un materiale musicale rarefatto.
Esplicita in lui è la rinuncia all’armamentario moderno in favore di una rinnovata essenzialità.
Così Fratres, in una versione del tutto inedita
per bayan e violoncello, presenta una serie di variazioni su un tema di poche battute che unisce l’attività, a volte frenetica, e la quiete sublime, ovvero “l’istante e l’eterno – come osserva Pärt stesso – che stanno lottando dentro di noi”.
(note a cura di Germano Scurti)
 

… un recital di Germano Scurti si propone sempre come un rito capace di suscitare in sala forze incantatorie.
The Classic Voice

OTTETTO SLOVENO

Vladimir Čadež, Rajko Meserko, Marjan Trček
Janez Triler, Jože Vidic, Darko Vidic
Janko Volčanšek, Matej Voje
musiche di J. Gallus, H. L. Hassler, F. Poulenc, V. Miškinis, M. Lauridsen, A. Pärt

Le più grandi pagine della polifonia tardo-rinascimentale a confronto con quelle dei maggiori compositori per coro del Novecento. Le voci di uno dei più prestigiosi complessi vocali da camera europei, da 60 anni sulla scena internazionale.

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